La prima cosa che ho pensato quando mi sono ritrovato a fare questo lavoro è quella che stavo invecchiando, e che quindi gli unici stimoli possibili si erano ridotti nel rimettere in ordine quanto fatto in passato, con l’ alibi di vedere se qualche scampolo di esso abbia senso oggi.
A peggiorare le cose c’è il fatto che ho iniziato a lavorare a questa raccolta di saggi a pochi mesi dal mio collocamento a riposo dall’Archivio di Stato di Rieti dove ho lavorato per quarantuno anni, e che dirigo ormai da tanto tempo.
E’ una parte inevitabilmente importante della mia vita. A fare due conti, un po’ come quelli che fanno gli innamorati per misurare il tempo trascorso insieme, si tratta di circa 10.000 giorni e 70000 ore. Un tempo lungo che però riesco a ripercorrere mentalmente con inaspettata velocità, mettendo in fila le mille immagini che hanno segnato questo viaggio, da quel primo lontano giorno del mese di marzo del 1980 quando, senza ben distinguere tra lavoro e passione, mi ritrovai nel meraviglioso mondo delle fonti storiche, ad oggi che continuo a sfogliarle con il medesimo entusiasmo di allora. In verità – almeno intimamente spero che sia così – questo lavoro non l’ho fatto perché sto invecchiando.
Questo magari è anche vero, però mi sia concesso di non averne percezione, e piuttosto che un lavoro di commiato, questo volume vuole essere solo una messa in ordine delle tante cose fatte, molte delle quali erano ormai perfino sfuggite alla mia memoria. Sono riemerse dai faldoni del mio archivio, un ammasso di carte a cui da troppo tempo mi riservo di dare un ordine, sperando che possano rappresentare un mezzo per ripercorrere un capitolo importante della mia vita, una sorta di diario che non ho mai voluto scrivere.
Nel lavoraci mi sono però reso conto che il percorso è monco in quanto quelle carte raccontano solo una parte del mio passato che va dall’inizio della mia attività di ricerca fino al dirompente ingresso dell’informatica, quando ci siamo illusi che comunicare era diventato molto più semplice e veloce rispetto a prima, e che le nostre relazioni potessero essere moltiplicate all’infinito. Forse anche questo è vero, ma è altrettanto vero che rispetto al passato tutto diventa labile, evanescente, destinato a scomparire in poco tempo. Dalle carte che conservo riemerge la mia vita – professionale s’intende – dall’inizio della mia attività iniziata nella seconda metà degli anni settanta, ai primi anni novanta, quando anche io, pur con qualche ritardo, mi affidai all’informatica.
Dopo di allora più nulla. Le relazioni del passato tenute in vita tramite la corrispondenza manoscritta con gli interlocutori più famigliari, e dattiloscritta con quelli a cui si doveva maggiore formalità, non esiste più. Tutto è svanito nelle migliaia di email con cui oggi comunichiamo in tempo reale, ma che poi svaniscono nel nulla ad ogni cambio di pc. Poco male, almeno per quanto mi riguarda, nella corrispondenza tenuta da poco meno di mezzo secolo non ci sono grandi contenuti che meritano di essere condivisi con il mondo esterno. Però che piacere nel rileggere quelle lettere con la carta che inizia ad ingiallire, e la consapevolezza del loro valore anche in relazione al tempo investito per redigerle, imbustarle, affrancarle e spedirle, con una sequenza di gesti che oggi, davanti all’ ossessiva velocità dell’informatica, abbiamo perfino dimenticato. Tutto è enormemente più veloce e facile, ma tutto diventa altrettanto velocemente fragile e sfuggente, affrancato dalla possibilità di diventare un segno della nostra memoria.
Lo dico in modo consapevole e affrancato da inutili romanticismi per il bel tempo andato, e, riguardo al mio presunto invecchiamento, mi conforta il fatto che la cartella sul mio desktop che contiene questa raccolta di saggi, si trova accanto ad altre tre o quattro alle quali sono affidati lavori nuovi e originali che appassionano non poco il mio tempo presente. Il motivo vero, o meglio lo stimolo a mettere in piedi questa raccolta di scritti, è stato il tempo forzatamente trascorso in casa a causa del lockdown dovuto alla pandemia da Covid 19, a cui sono stato costretto, in tempi alterni, fin dal mese di marzo 2020. Vivo a Contigliano, che in quel periodo fu tra le zone rosse, costringendomi in casa in modo permanente.
Una reclusione forzata che mi ha anche impedito di essere vicino a mia madre che in quei giorni stava morendo, lasciandomi l’angusto compito di poter solo immaginare gli ultimi momenti della sua vita, consumati nello spazio minuscolo di una grande casa bianca nella quale mi era vietato l’accesso, ma che, per ironia della sorte, potevo vedere ogni momento dalla finestra del mio studio, lasciandomi costantemente immaginare la sofferenza e la paura di una persona tanto cara e ormai tanto fragile, e condannandomi ad una insopportabile impotenza davanti ad una situazione inedita, neanche lontanamente immaginabile solo qualche settimana prima.
Questo lavoro è cominciato allora e ha rappresentato per me un consolatorio tuffo nel passato davanti ad un presente decisamente brutto, al quale mi illudevo di poter sfuggire. E’ iniziato allora e sta giungendo al termine ora, alla fine del 2020, in un tempo che ha ricondotto l’umanità a fare i conti con i propri limiti, imponendo anche ad essa l’impotenza davanti ad un semplice virus, proprio quando ci eravamo illusoriamente abituati a vivere nella certezza che non poteva esserci più nulla che non potesse essere controllato e sconfitto. Ed invece ci siamo ritrovati a vivere in un medioevo arcaico, terrorizzati gli uni dagli altri, in ginocchio davanti ad un microrganismo invisibile che ci fa paura senza neanche poter ricorrere, come in situazioni analoghe è accaduto in passato, ad una speranza divina, in un tempo ormai inesorabilmente secolarizzato.
E’ stato – per molti versi lo è tutt’ora – un tempo nel quale un po’ tutti siamo stati costretti ad inventare qualcosa per riempire quelle giornate nelle quali i minuti e le ore si dilatavano molto di più del loro tempo reale. Due cose mi sono state di conforto in questo tempo. La prima è aver coltivato pomodori sul mio balcone, la seconda è stato il tempo dedicato a questo lavoro. Aver rimosso i fiori dai vasi che ornano l’unico spazio esterno della mia abitazione, e sostituire gerani e azalee con alcune specie di pomodori, che io naturalmente non conosco, è stato il frutto di una decisione presa con il sorriso sulla bocca, ma che in realtà celava la consapevolezza che in un tempo così drammatico, all’estetica dei fiori sarebbe stato più consono il pragmatismo dei pomodori. Via il bello a favore dell’utile.
Un pensiero che alla fine si è rivelato errato perché quando i miei pomodori sono cresciuti, più che per il loro valore alimentare, ho finito per apprezzarli proprio per la loro estetica che non so quanto fosse reale, o piuttosto si imponeva così ai miei occhi per rispondere a una inconscia necessità di bellezza, in un tempo come quello dominato dai mille volti che può assumere il brutto. Di pari passo con questa attività ho iniziato a mettere ordine alle mie librerie, alle cartelle dove si erano accumulati un po’ alla rinfusa saggi, relazioni a convegni, lavori abbozzati e mai portati a termine.
Mi sono reso conto di quante cose, più o meno utilmente, avevo prodotto nel corso del tempo, ognuna con una sua storia e un suo percorso. La stessa cosa è accaduta rimettendo ordine nel mio pc andando a vedere cosa avevo salvato nei vecchi hd esterni o nei cd sui quali anni orsono avevo trasferito il contenuto dei miei vecchi floppy disk, un tempo segni di una straordinaria rivoluzione tecnologica e in poco tempo ridotti a semplici testimonianze di archeologia informatica.
Li continuo a conservare, pur non possedendo più alcuno strumento per poterli leggere. Insomma il lockdown mi aveva fatto riscoprire decine e decine di lavori in parte inediti, in parte pubblicati in riviste e volumi collettivi, che non avevano avuto alcuna circolazione a Rieti ed in genere nel mondo di coloro, amici, colleghi, studenti, insomma in quel vasto orizzonte con cui, per svariate ragioni, mi interfaccio quotidianamente. Da qui l’idea di selezionarne una parte e riunirli in un volume miscellaneo che alla fine è venuto molto più corposo di quanto avrei voluto all’inizio.