Frazione di Pozzaglia in Sabina, da cui dista poco più di un chilometro, Montorio in Valle è in realtà un borgo montano affacciato a 913 metri sul livello del mare come un arioso balcone sulla Valle Muzia.
L’origine dell’abitato va riferita ai tempi dell’incastellamento altomedievale, ma il territorio era già popolato in età romana, quando le fertili vallate dell’Italia appenninica furono intensamente coltivate grazie all’insediamento di ville rustiche e ville padronali, le aree pedemontane sfruttate per i pascoli, destinate a volte alla centuriazione utile a garantire autonomia economica e dignità sociale ai legionari, all’atto della cessazione dal servizio prestato sotto le insegne dell’esercito di Roma.
Fu questa la sorte del pianoro della Valle Muzia, parte integrante dell’area del Turano soggetta fin dal V secolo alla potente abbazia di Farfa, terra di frontiera tra il Ducato di Spoleto e il Patrimonio di San Pietro.
Ed è proprio nel Regesto Farfense che Montorio in Valle entra con il suo nome nella storia medievale, per distinguersi dall’altro Castrum Montis Aurei abbarbicato nelle propaggini settentrionali dei monti Lucretili tra le cime di monte Pelato e monte Calvario, anch’esso di pertinenza farfense.
La fine ingloriosa delle scorribande dei Saraceni lasciò nella vallata due segni purtroppo non indelebili, l’erezione dell’abbazia di Santa Maria del Piano posta nell’817 sotto la diretta tutela carolingia e il toponimo di Canemorto, ingentilito dopo l’unità d’Italia in Orvinio, alla ricerca delle memorie dell’antica, gloriosa Orvinium sabina.
Così scelsero i cittadini sottoscrivendo il 29 novembre 1862 la Deliberazione Consiliare sancita poco più tardi dal Regio Decreto emanato il 29 marzo 1863.
Più ingrata fu la sorte dell’abbazia di Santa Maria del Piano, indemaniata al tempo delle soppressioni napoleoniche.
Con la restaurazione, l’abbazia tornò ad essere retta dal canonico lateranense Gaspare Caffarelli a cui era precedentemente affidata in commenda.
Alla morte dell’ultimo Abate Commendatario, le rendite di Santa Maria del Piano furono destinate per quindici anni alla ricostruzione della chiesa di San Nicola di Bari a Canemorto, solennemente riaperta al culto nel settembre dell’anno 1842.
Intanto nel 1849 approfittando del clima di fermento della Repubblica Romana gli abitanti di Pozzaglia, che invano avevano richiesto l’assegnazione del complesso abbaziale, trafugarono dall’abbazia la bella icona mariana che da secoli adornava l’altare maggiore e per ritorsione gli abitanti di Canemorto spiccarono dal campanile la campana maggiore, requisita dal Preside Raffaele Feoli e presa in deposito dal Comune di Rieti.
Nel 1855, la vasta aula basilicale di Santa Maria del Piano fu utilizzata per la sepoltura dei morti a causa dell’epidemia di colera.
Dopo il 1869, quando il sindaco Vincenzo Segni aveva acquistato dal Demanio dello Stato l’abbazia per la cifra di £ 402,70, il Comune di Orvinio chiese ed ottenne dalla Prefettura di Perugia la possibilità di trasformare l’abbazia in sede cemeteriale stipulando nel 1885 con l’impresario Nicola Amici il contratto per la costruzione del recinto denominato camposanto delle Fargne, per il quale le pietre della solida struttura abbaziale sarebbero state utilizzate come materiali di risulta, nonostante le vibrate proteste del principe don Paolo Borghese, fino all’assoluto divieto espresso dalle Autorità civili.
Ma i danni procurati all’edificio sacro erano ormai ingenti, a malapena arginati dagli interventi di consolidamento che si sono susseguiti da parte delle Istituzioni tra le alterne vicende del XX secolo.
Dall’alto della montagna, gli abitanti di Pozzaglia, di Pietraforte e di Montorio continuarono ad osservare con nostalgia il lento, inarrestabile declino dell’abbazia un tempo tanto ricca e potente.
Intanto, nel corso dei secoli, le grandi casate romane – i Colonna, gli Orsini, i Borghese – si erano avvicendate nella proprietà di questi feudi, ricchi dei proventi dell’economia della montagna, strategici per posizione. In spiritualibus i castelli erano nullius diœcesis come pertinenze abbaziali. Avrebbero mantenuto questa loro indipendenza dall’autorità episcopale fino al 1841 quando papa Gregorio XVI con la bolla Studium quod impense afficimur avrebbe costituito la diocesi di Poggio Mirteto, trasferendovi la sede vescovile di Magliano ed assorbendo le aree territoriali già dipendenti da Farfa e da San Salvatore.
La mancata unità territoriale fu sanata soltanto nel 1925 da papa Pio XI con la bolla In altis Sabinæ montibus.
Nel nuovo assetto territoriale, le parrocchie di Orvinio, di Pozzaglia, di Pietraforte e di Montorio in Valle vennero assegnate alla diocesi di Tivoli.
Il panorama religioso di questi paesi orgogliosi delle loro antiche origini è particolarmente ricco di memorie e tradizioni che nel corso del XVII secolo trovarono un valido interprete nel pittore Vincenzo Manenti da Canemorto, che non soltanto dipinse con amorosa cura nel paese natale il santuario della Madonna di Vallebona, la chiesa di San Giacomo e il conventino di Santa Maria dei Raccomandati ma lasciò prova della sua maestria anche presso la chiesa parrocchiale di Santo Stefano Protomartire a Montorio in Valle.
Si tratta di un edificio dalle forme severe ed imponenti, sicuramente coevo alla fondazione del castello, eretto dai benedettini mediante l’utilizzo sapiente della pietra locale, ampliato nel corso dei secoli successivi e dotato di una solida ed alta torre campanaria.
Il portale è impreziosito da due colonne che sostengono l’architrave su cui spicca l’iscrizione MODICU IUSTO SUP DIVITIA SPO, il poco dell’uomo giusto è superiore alla ricchezza dell’iniquo, riecheggiando gli insegnamenti della parabola dell’obolo della vedova.
Nella lunetta, un rustico bassorilievo raffigura Santo Stefano protomartire in atto di benedire chi si appressa ad entrate in chiesa.
In memoria della visita pastorale condotta nel 1781 dal cardinale Andrea Corsini furono scolpite le due rosette che decorano le colonne.
Stanno a dimostrare la sequenza degli interventi di ampliamento e riassetto le irregolarità delle pareti dell’aula dominata dall’arco trionfante disassato, quasi per la conseguenza di un ripensamento o di un tentativo di fare proprio il lessico raffinato del gotico in una terra dominata dal gusto romanico già sperimentato dai costruttori e ben radicato nella tradizione popolare.
La decorazione delle pareti rivela un autentico palinsesto che spazia dal XVI al XVIII secolo.
Ai rustici affreschi che raffigurano con dovizia di cruenti dettagli il martirio di Sant’Agata fa da contrappunto il maestoso altare barocco sovrapposto alla Madonna del Rosario eseguita da Vincenzo Manenti nel pieno della sua maturità artistica.
Il dipinto della parete a cornu Epistulæ, realizzato dall’artista con la particolare tecnica messa a punto insieme con il padre Ascanio unendo i caratteri di compattezza e coesione propri dell’affresco con le peculiarità di brillantezza della tempera, fu eseguito per conto della Confraternita del Rosario.
La Madonna siede sul trono all’interno di una nicchia che lascia intravvedere un volo d’angeli chiuso dalla cornice dell’altare. È una giovane bellezza paesana, dai lineamenti regolari, il volto ridente, i capelli castani legati sotto la cuffia bianca come il mantile che le copre le spalle, vestita di rosso e d’azzurro, il Bambino Gesù benedicente saldamente tenuto con la mano destra mentre con la sinistra tende la corona del Rosario ai Santi dell’Ordine dei Predicatori che ne promosse la devozione, San Domenico di Guzman e Santa Caterina da Siena, inginocchiati al suo cospetto.
Il gioco delle ombre proiettate dalla sagoma della Madonna rivela la squisita maestria dell’artista che dopo l’apprendistato condotto nella bottega di famiglia si era perfezionato a Roma alla scuola del Cavalier d’Arpino e di Domenichino. Rientrato in patria, avrebbe dominato la scena artistica in Sabina fino al 1674, anno della sua morte.
Le figure dei due Santi sono dipinte con particolare finezza, così come le due monumentali figure allegoriche, CHARITAS e RELIGIO, parzialmente dalle colonne della trabeazione dell’altare che cela con il suo coronamento altri importanti elementi della decorazione parietale, come le due belle teste di Profeti che in anni recenti sono state fotografate e rese visibili sulla mensa dell’altare.
Ma la chiesa parrocchiale non è l’unico luogo di culto per la devota popolazione di Montorio in Valle. Ad essa si unisce, cara al cuore dei montoriani, la chiesa rupestre della grotta di San Michele Arcangelo alta all’incirca 1000 metri sul colle Mandrile, ancora oggi meta di pellegrinaggio nel mese di maggio così come fu in epoca pagana per i Sabini che riconoscevano Sabo, corrispondente al greco Eracle ed al latino Ercole, come loro divinità eponima, protettore dei patti e degli scambi commerciali, dei viandanti e delle loro greggi.
La devozione per gli antichi dei che Dante definì falsi e bugiardi fu presto soppiantata dalla spiritualità cristiana grazie allo spirito sinceramente religioso di un popolo dotato di sani principi e solidi valori. Le greggi continuarono così a trovare riparo nel chiuso della grotta un tempo consacrata ad Ercole, affidata dai Benedettini alla tutela dell’Arcangelo Michele.
Dopo la canonizzazione fortemente voluta da papa Gregorio IX, un anonimo frescante volle dipingervi l’umile immagine di San Francesco in preghiera.
Sono queste le opere salienti che caratterizzano il paese di Montorio in Valle, frazione di Pozzaglia, un piccolo borgo ordinato e ben tenuto, amato appassionatamente dai suoi abitanti, pochi eppure uniti nell’Università Agraria, orgogliosi custodi di un passato degno di essere conosciuto e tramandato alle generazioni che verranno con le sue testimonianze d’arte e di fede.
A cura di Ileana Tozzi