Chiesa di Santa Barbara in Agro

A chiunque, nelle ore brumose del giorno, di primo mattino o sul far della sera, capiti di viaggiare lungo i rettifili che s’intersecano nella piana reatina piatta ed ubertosa, dove l’asfalto si raggruma sull’antico tracciato ghiaioso dei viottoli interpoderali che collegavano un tempo le proprietà dei principi Potenziani, estese a perdita d’occhio come i beni di Mazzarò, non è certo estranea la percezione netta, consapevole di muoversi entro uno spazio che la natura aveva destinato a ben altra funzione: la forma di questo territorio dai confini rarefatti è, infatti, ancora quella che appartenne all’alveo dell’ancestrale lacus Velinus, strappato al suo destino di palude malsana dalla  determinazione del console Manio Curio Dentato, più volte bonificato ancora nel corso dei secoli a venire dalla tenacia dei Cistercensi di San Matteo de Monticulo e di San Pastore, dalla perizia dei celebri ingegneri idraulici pontifici, i Maderno, i Sangallo, i Fontana impegnati nel progetto ambizioso della cava Paolina.

Nella nebbia bianca e ovattata che sale compatta dalle zolle grasse dei campi, l’occhio del viaggiatore d’occasione vaga distratto fin quando non s’impiglia in un elemento inaspettato, che interrompe la monotonia piatta dei campi coltivati: è un campanile, alto ed elegante nelle forme inusuali che ambiscono ad imitare la grandiosità del barocco, quasi a nobilitare  la semplicità della vita agreste.

Fu certo la sensibilità, forse la nostalgia che nutriva i sentimenti e il gusto del vescovo monsignor Carletti, ferrarese per nascita, a dettare le linee architettoniche di questa pieve dai caratteri tanto inusuali quanto suggestivi.

Ma a chi conosce da vicino questo lembo di terra feconda più volte strappato al ristagno delle acque non sfugge la rilevanza storica, o piuttosto sociale, di questo campanile e della chiesa che gli sorge accanto: Santa Barbara in Agro, Santuario del Crocifisso, la cui costruzione centocinquant’anni or sono rappresentò il segno tangibile di un riscatto, l’affermazione di un’identità popolare, contadina e cristiana, capace di mutare per sempre il nome dei luoghi.

Da allora in poi, l’abitato che s’infittisce lungo il tracciato della strada provinciale con i casali dai muri scrostati, le torri piccionaie, le soggette fiorite di gerani disseminati fra il granturco di Pratolungo si riconosce nella comune matrice del toponimo di Chiesa Nuova. Due antiche chiese nella pianura distesa a settentrione della città di Rieti avevano in comune il titolo di dedicazione alla Madonna: Santa Maria in Pratolungo e Santa Maria in Campo Reatino.

Quest’ultima, eretta intorno alla metà del XV secolo, era stata affidata nel 1621 ai Padri della Dottrina Cristiana. Da questa Congregazione, nel 1747, passò ai Chierici Ministri degli Infermi a cui era stata affidata la cura dell’ospedale di Sant’Antonio Abate e la parrocchia dei SS. Ruffo e Carpoforo.

Nel 1853, la chiesa di Santa Maria in Campo Reatino fu demolita ed il pietrame ricavato fu utilizzato come materiale di risulta per la costruzione della nuova chiesa di Santa Barbara in Agro.

Benché nel suo saggio del 1926 La Cattedrale basilica di Rieti con cenni storici sulla altre chiese della città Francesco Palmegiani stabilisse l’avvio dei lavori al 1859, seguito in questa datazione dagli eruditi locali e dagli svariati estensori dell’Annuario Diocesano, le fonti d’archivio dimostrano senza tema d’equivoco che i lavori ebbero inizio pressoché contestualmente alla demolizione della chiesetta di Santa Maria.

Fin dal 1841, don Angelo Giordani amministratore della Parrocchia di San Donato pagava le tasse alle autorità civili e religiose per «cura da erigersi nell’Agro reatino».

Nell’Elenco Generale delle parrocchie e delle chiese della Città e Diocesi Benefici Parrocchiali Cappellanie sec. XIX, conservato presso gli Archivi Riuniti della Curia è registrata la chiesa di Santa Barbara ai Comunali.

Una cartella priva di segnature restituisce un interessante fascicolo di bollette e documenti contabili da cui è possibile desumere puntuali notizie sull’andamento dei lavori.

Il progetto risulta affidato all’architetto Agostino Luigi Cleomene Petrini da Camerino, che in quel torno di anni stava realizzando a Rieti la chiesa annessa all’Ospizio Cerroni (1856) e lavorava per le dimore gentilizie dei De Marco in piazza del Leone, dei Corona nella piazza prospiciente alla chiesa di San Domenico, dei Moronti, dei Vincentini, dei Crispolti lungo via degli Abruzzi. Nella regione d’origine, tra il 1869 ed il 1884 il Petrini costruì il teatro di Fabriano, si occupò del riassetto del teatro comunale di Matelica eretto ad inizio secolo dal Piermarini, progettò con soluzioni innovative l’acquedotto di Camerino.

La chiesa ideata era semplice nelle linee, armoniosa nella compatta volumetria: aveva un’unica navata, il prospetto impreziosito da un timpano, l’abside in mattoni scandita da due pilastri che sostengono l’arco trionfale.

I lavori fervevano fin dalla primavera del 1854, quando i materiali di risulta della chiesa di Santa Maria in Campo Reatino vennero sollecitamente trasportati nel sito designato per la nuova costruzione. Lo dimostrano sei bollette – datate rispettivamente al 9 aprile, all’8 e al 30 maggio, al 4, al 19 e al 23 giugno – sottoscritte dal canonico Giovanni Tommasi ed indirizzate all’amministratore fiduciario Luigi Crispolti ed all’impresario Silvestro Marignetti.

Particolarmente dettagliata è la prima annotazione: «Il sig. Cl.e farà grazia consegnare al Muratore Silvestro Marignetti la somma de’ scudi quattordici pattuiti pel cottimo dello sfascio di Campo Reatino. Poi farà grazia consegnargli baj. Venticinque per aver cavato la terra cotta dalla cameretta della chiesa e trasportata nella piazzetta».

Oltre ai materiali recuperati, fu indispensabile l’acquisto di calce, legname, ferro. Sono dettagliati i conti dei fabbri e dei falegnami che lavorano per la costruzione della nuova chiesa.

La calce venne acquistata a più riprese, fra il 1854 e il 1859. dalla calcara di Vecchiarelli e da Angelo Faraglia di Lisciano. Il trasporto fu affidato ai muli di un tale Paolo Masci di Lugnano con la spesa di 21.2 bajocchi alla soma.

Nel 1855 Giuseppe di Guido fornì i travi per il tetto, diciassette lunghi 18 palmi, otto lunghi 19 palmi, quattordici lunghi 21 palmi. Il legname – castagno, acero, pioppo –  necessario per la costruzione degli arredi fu acquistato nel 1862 da Giuseppe Costantini del Varco, l’albuccio  da Pippo Petrongari.

Tra il 1856 e il 1859 il falegname Ludovico Sforzi eseguì scale, solai, «telari, un inginocchino, accomodatura della rinchiera al parrapetto delle scala del soffitto» per un totale di 6 scudi e baj. 15, e ancora la bussola, quattro porte a muro, una porta foderata, due porte per il coretto, i telai delle finestre della chiesa e della casa parrocchiale, due banchi da sedere. I fabbri Cesare e Pietro Trinchi, Francesco e Luigi Nardi, Silvestro Piacentini provvidero fra il 1854 e il 1861 alle varie necessità «per la Chiesa nova fuori di porta Cintia».

Una nota del maggio 1854 riporta la lista dei muratori e manovali retribuiti per il lavoro prestato: Francesco Panunzi, Antonio Laureti, Ferdinando Santori, Vincenzo Rocchi, Domenico Peschi, Giovanni e Luigi Nardi, Francesco D’Angeli, Antonio Ponteggi, Alessandro Cannella, Agnese Malfatti e Caterina Talocci, le donne incaricate di smorzare la calce, oltre a tre ragazzi assunti ad opera per due giornate.

Dell’assetto originario, poco rimane allo stato attuale: la custodia del Crocifisso miracoloso scampato alla devastazione della chiesa di San Domenico impone ai parroci ed ai fedeli di provvedere con zelo tutto particolare all’abbellimento della chiesa.

Linda e ordinata, luminosa e accogliente la chiesa di Santa Barbara in Agro potrebbe definirsi come un buon esempio dell’eclettismo affermatosi fra la seconda metà dell’Ottocento, ampiamente diffuso nel corso del Novecento, fino al Concilio Vaticano II che ha affrontato radicalmente il tema della progettazione e dell’allestimento degli spazi liturgici: così come l’aspetto architettonico che pure esula dalle forme usuali ben si armonizza con la natura, ricordando con la vaghezza delle forme le pievi che costellano la pianura Padana, gli interni accolgono opere eterogenee per stili e materiali, che pure si ricompongono in una sostanziale unità data dalla devozione sincera dei committenti, dalla dedizione dei parroci che si sono succeduti nel corso di questi centocinquanta anni alla guida di una comunità che ha saputo vedere nella propria chiesa il segno tangibile della propria essenza. Dopo l’avvio della costruzione, compiuta entro il 1863 nelle linee essenziali dell’impianto architettonico, una stagione particolarmente intensa  coincide con  la presenza del parroco don Vittorio Giusto.

Il secondo dopoguerra vede così riprendere i lavori  con la costruzione dell’alto campanile, che con i suoi trentatré metri di altezza segna il profilo dell’abitato disteso sulla pianura vegetata. Anche l’aula destinata alla liturgia fu radicalmente rinnovata mediante l’aggiunta delle navate laterali, decorate a mosaico come il presbiterio ed il fonte battesimale.

I temi iconografici prescelti riflettono la duplice intitolazione della chiesa alla martire Barbara, patrona della città e della campagna, ed al Cristo che attraverso il sacrificio della croce riscatta l’umanità dal peccato e dalla morte dello spirito.

Così nel catino absidale e nel presbiterio furono realizzate con le luminescenti tessere musive in pasta vitrea le immagini del Buon Pastore e le scene della vita di Santa Barbara, mentre il fonte battesimale fu decorato con la raffigurazione del battesimo di Gesù. Nel 1990, Roberto Taito realizzò per la chiesa di Santa Barbara in Agro tre tele raffiguranti le fasi salienti del martirio della Santa: Santa Barbara al cospetto del giudice, sottoposta al martirio, visitata da Cristo in carcere.

I tre grandi acrilici su tela sono ancorati al soffitto della navata centrale. Taito, fumettista e scenografo di vaglia approdato alla Rai e a Cinecittà dopo un’infanzia girovaga al seguito dei suoi familiari, titolari di una delle ultime compagnie di teatro viaggianti impegnata nella divulgazione delle pièces più amate dal pubblico, intende la superficie della tela come uno spazio narrativo scandito in sequenze in cui si consuma una storia capace di suscitare i sentimenti più intensi: la pietà per la fanciulla perseguitata, l’orrore per i carnefici, il disprezzo per il padre crudele ed insensibile, che sacrifica la sorte della figlia all’ambizione personale.

Anche la tavolozza si addensa, a partire dai colori primari: il risultato è efficace, diretto, semplice ma mai banale, poiché al di là dell’apparente naïveté dell’impianto descrittivo traspaiono gli esiti di uno studio attento ed accurato delle fonti iconografiche, come dimostra nell’acrilico dedicato alla scena della tortura la replica di un affresco del XVIII secolo che il cavalier Concioli realizzò nella cappella dedicata in Cattedrale alla patrona di Rieti.

L’impianto figurativo aderente alla narrazione dei Vangeli caratterizza del pari la serie delle formelle mistilinee della Via Crucis in rame lavorato a sbalzo con gradevoli effetti plastici, realizzata fra il 1967 ed il 1972. Nel 1978, l’ampio portone della chiesa viene reso ancor più maestoso grazie alla decorazione delle formelle bronzee progettate e realizzate dalla Fonderia Artistica Versiliese.

Si tratta di tre distinti elementi plastici, realizzati a fusione, che si sviluppano ordinatamente in alto, a coronamento del portale, e sulle due ante, proponendo una essenziale sequenza di immagini dal chiaro significato evocativo.

La formella ancorata in alto al centro del portale si dispone orizzontalmente, raffigurando la croce con l’iscrizione IN HOC SIGNO VINCES A.D. 1978 su un plafond di segni astratti che evocano la corona di spine e la raggiera di luce che si sprigiona dal simbolo della redenzione. Le due formelle verticali rappresentano, rispettivamente, l’estasi della beata Colomba  al cospetto della croce e la consacrazione di Maria Ponchiardi missionaria del SS.mo Crocifisso. Il bassorilievo dell’anta sinistra presenta dunque la silhouette della terziaria domenicana Colomba da Rieti, mistica della prima età moderna, inginocchiata di fronte alla croce di San Domenico. In alto, scorre l’iscrizione:

LA BEATA COLOMBA DA RIETI
A COLLOQUIO CON IL
CROCIFISSO MIRACOLOSO.

Stando alla Legenda raccolta dal suo confessore, il domenicano Sebastiano Angeli, Colomba da Rieti ebbe il privilegio di ascoltare dalla viva voce del Cristo crocifisso le parole sublimi che la esortarono alla consacrazione, fugando ogni suo dubbio e dandole la forza di opporsi alla volontà dei familiari, che la destinavano alle nozze. La vita della beata Colomba, breve ed intensa, si consuma fra Rieti e Perugia contemperando azione e contemplazione. Di questa straordinaria esperienza, la formella del portale della chiesa di Santa Barbara in Agro propone un’efficace sintesi plastica. Narrativo è del pari l’impianto del bassorilievo dell’anta destra, dove è raffigurato un Vescovo, paludato con mitria e pastorale, che consegna una croce ad una giovane donna. L’iscrizione spiega:

S.E. MONS. B. MIGLIORINI VESCOVO
DI RIETI FONDATORE DI QUESTO SANTUARIO
CONSACRA MARIA PONCHIARDI
MISSIONARIA DEL S.S. CROCIFISSO 1946.

Le immagini dei bassorilievi, dal fine ed efficace modellato, esprimono con chiarezza, in ossequio alla tradizione figurativa, il messaggio cristologico affidato alla chiesa di Santa Barbara in Agro, custode dell’antico Crocifisso.

Le due figure femminili, la mistica del XV secolo, la missionaria del XX, al di là della loro esperienza di vita, sono anch’esse elementi simbolici capaci di incarnare il messaggio di una Chiesa sensibile al mutamento dei tempi, capace di dare risposta ai bisogni materiali e spirituali dell’umanità nel segno di Gesù Cristo, signore del tempo e della storia.

Ma le sagrestie della chiesa di Santa Barbara in Agro custodiscono due tele dei secc. XVII-XVIII, entrambe ispirate alla devozione per la Vergine Maria: si tratta di una grande Madonna in maestà (cm. 153 x  210) riconducibile alla bottega di Lattanzio Niccoli e di una più modesta Madonna Incoronata ( cm. 100 x 75) di cui s’ignora la provenienza.

È plausibile supporre che siano appartenute alla vetusta chiesa di Santa Maria in Campo Reatino, costruita dopo che si diffuse nella piana la venerazione per una miracolosa immagine della Vergine, custodita in una edicola. Ne parlano le Riformanze, che al 14 giugno 1468 annotano la deliberazione del commissario apostolico monsignor Baldassarre da Pescia di affidare la raccolta e la custodia delle elemosine a sei cittadini, eletti in rappresentanza di ciascuno dei sestieri, perché provvedessero alla costruzione di una chiesa rurale intitolata alla Madonna.

La chiesa, di proprietà del Capitolo della Cattedrale, risulta costruita entro il 1490 ed affidata alla custodia di un eremita.

Gli Atti della Visita Apostolica condotta da monsignor Pietro Camaiani fra il dicembre 1573 e l’aprile 1574 registrano lo stato della chiesa, allestita decentemente e dotata di tre altari: l’altare maggiore con l’immagine della Madonna, l’altare a cornu Epistulae dedicato a San Girolamo, l’altare a cornu Evangelii  dedicato alla Pietà.

Nel 1620, il Capitolo della Cattedrale cedette la piccola chiesa rurale ai Padri della Dottrina Cristiana, con l’incarico che si impegnassero ad istruire i figli dei contadini. L’11 marzo 1621, i Padri Dottrinari presero possesso della chiesa impegnandosi al pagamento annuo di una libbra di cera da conferire alla Cattedrale in occasione della festività dell’Assunta.Dopo la soppressione della congregazione dei Padri della Dottrina Cristiana, la chiesa di Santa Maria in Campo Reatino fu officiata dai Chierici Ministri degli Infermi, che la adibirono alla mansione di chiesa cemeteriale.

La datazione delle due tele di ispirazione mariana suggerisce che queste potrebbero riferirsi al duplice passaggio di consegne dal Capitolo della Cattedrale ai Padri della Dottrina Cristiana, già titolari della chiesa e del complesso di San Paolo, e da questi ultimi ai seguaci di San Camillo de’ Lellis.

In particolare, la grande tela raffigurante la Madonna con il Bambino Gesù benedicente in un tripudio di angeli, assisa su una folta nube ovattata, presenta i tratti propri della maniera del cavalier Lattanzio Niccoli: il fondale compatto, privo di riferimenti paesaggistici ma circonfuso da un’intensa luminosità, la fisionomia degli angeli e del Bambino Gesù dai tratti marcati e  dalle testine ricciute, la gestualità vivace, enfatica dei personaggi che affollano la scena sono infatti elementi ricorrenti nella composizione delle opere migliori di questo artista.

Più difficile ipotizzare un’attribuzione per la tela della Madonna Incoronata, certo convenzionale nell’impianto e nelle scelte cromatiche, ma gradevole ed armonioso nella semplicità espressiva del gesto benedicente del Bambino Gesù, nello sguardo velato della Vergine, presaga della sorte terrena del Figlio, cui porge la croce.

Accanto a queste tele, un solido confessionale in legno, lavorato non senza perizia ed eleganza da anonime maestranze locali, un calice in ottone ed argento indorato con una lavorazione che alterna motivi geometrici e palmette fanno parte del lascito che la chiesa di Santa Barbara in Agro ha raccolto dalle più antiche pievi rurali.

Ancora Francesco Palmegiani annotava, a proposito della chiesa di Santa Maria in Campo Reatino: «il vescovo Curoli aveva pensato istituire in questa chiesa una parrocchia rurale, ma, morto il Curoli, la chiesa parrocchiale fu costruita più distante sulla via che mena a Terni e per risparmiare poco materiale di muratura fu demolita l’antica chiesa di Campo reatino  nel 1853 creandosi così la Madonna della Chiesa nuova».

Traspare, in questa breve nota, il rammarico per la perdita di una testimonianza del passato, che non può non condividere chiunque coltivi la sensibilità verso la conservazione e la custodia dei beni architettonici ed artistici ecclesiastici: eppure, nella traslazione del titolo dal vecchio al nuovo edificio, nell’atto materiale della demolizione finalizzata alla ricostruzione non possiamo non cogliere l’eco della parabola: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24).

La storia della Chiesa Nuova si svolge, fin dall’atto della sua fondazione, nel segno di un rinnovamento necessario, anzi inevitabile: è la chiesa che con il Crocifisso di San Domenico accoglie le reliquie – quasi i relitti – di un passato glorioso e negletto, la chiesa beneamata dai Vescovi reatini che si succedono dalla seconda metà dell’Ottocento capace di aggregare la comunità dei fedeli tanto da conferire ad essa una identità che trova espressione nel toponimo che ne porta a sintesi i tratti religiosi e civili.

La parabola del chicco di grano esprime nella sua verità eterna il senso di una vicenda che si riflette nella campagna ubertosa che si distende attorno alla chiesa di Santa Barbara in Agro, Santuario del Crocifisso: la croce, che nel chicco di grano trova simbolo e prefigurazione, ha fecondato la  Chiesa universale, di cui la comunità della Chiesa Nuova è parte.
A cura di Ilena Tozzi.

2024-05-21T09:44:33+00:0021 Maggio 2024|

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